venerdì 23 maggio 2025

Polizieschi all’italiana: Donne, misteri e città che parlano

Confesso: su Camilleri ero un po’ prevenuta. Quando uno scrittore viene acclamato da tutti, io tendo a prenderlo con le pinze. Troppo successo, troppa popolarità. Ma poi, un giorno, mi è capitata tra le mani la sua biografia di Pirandello – e lì è scattato qualcosa. Un entusiasmo che non mi aspettavo. Ho scoperto un autore acuto, appassionato, capace di scavare con delicatezza dentro la complessità di un altro gigante siciliano. Da lì in poi, sono diventata una sua fan convinta.

E naturalmente, sono approdata anche a Montalbano. All’inizio quasi per curiosità, poi per affetto, infine per amore. Di quella casa a Punta Secca (che nella serie è Marinella), dei vicoli di Ragusa Ibla, dei silenzi, delle risposte secche, della pasta 'ncasciata e dei pranzi in veranda. Montalbano mi ha ricordato che anche in Italia, quando si vuole, si sa fare televisione di qualità, capace di parlare al pubblico senza svendersi, e soprattutto di creare atmosfere che restano.

E così, da quella finestra sul mare siciliano, mi sono lanciata con entusiasmo alla scoperta di una nuova stagione del poliziesco italiano, dove non solo gli attori ma anche le città, le donne e le emozioni sono protagonisti. Ecco i miei preferiti, quelli che hanno reso le mie serate un appuntamento immancabile.

La Porta Rossa – Trieste, il confine tra la vita e ciò che resta In questa serie, Trieste è grigia, malinconica, intensa. Il commissario Leonardo Cagliostro, ucciso in servizio, non riesce a “passare oltre” finché non scoprirà chi lo ha tradito. E così si aggira come spirito, spettatore impotente, mentre la città continua a vivere senza di lui. Ma c’è qualcuno che può vederlo: una ragazza inquieta e sensibile, Vanessa. E poi c’è Anna, la moglie magistrato, donna forte e ferita, che cerca giustizia senza sapere che suo marito la guarda ancora.

La Porta Rossa è un noir fuori dai canoni, più vicino a una poesia che a un giallo, dove il crimine è solo l’inizio di un viaggio nel lutto, nella memoria, nell’amore. Un racconto sospeso, come la nebbia che avvolge il Molo Audace.

Lolita Lobosco – Tacco dodici e cervello fino Bari è calda, vivace, piena di luce. Come lei, Lolita Lobosco, vicequestore determinata e fuori dagli schemi. Elegantissima, colta, ironica, Lolita indaga tra pregiudizi, segreti di famiglia e crimini veri, senza mai smettere di essere donna. Ma una donna autentica, non stereotipata: non rinuncia alla femminilità per imporsi, ma la usa come parte della sua forza.

Accanto a lei, una squadra vivace, una sorella presente, un amore possibile e complicato. La serie, tratta dai romanzi di Gabriella Genisi, è brillante e colorata, ma sa toccare temi profondi come la violenza di genere e il potere. Lolita Lobosco è un invito a credere nella forza delle donne. Anche con il rossetto acceso.

The Bad Guy – Quando il confine tra eroe e mostro si fa labile Nino Scotellaro, magistrato integerrimo, viene accusato di essere un boss mafioso. Ed è qui che comincia The Bad Guy, una serie che gioca con i generi e con il nostro senso della giustizia. La Sicilia raccontata qui è cupa, surreale, teatrale. E Luigi Lo Cascio è straordinario nel dar vita a un personaggio che affonda nella vendetta con una lucidità quasi shakespeariana.

C’è humour nero, satira sociale, tragedia familiare. E c’è la sensazione scomoda che la verità, in certi contesti, non sia mai tutta da una parte sola. Una serie coraggiosa, spiazzante, che non fa sconti a nessuno.

Imma Tataranni – Matera, abiti eccentrici e mente acuta Se c’è una figura che rompe ogni cliché è Imma Tataranni, procuratrice di Matera (la serie che sto guardando proprio in questi giorni). Appariscente, impertinente, logorroica, sarcastica. Ma anche madre amorevole, moglie imperfetta, figlia sensibile. Imma è tutto insieme, e per questo irresistibile.

Ogni caso che affronta è uno specchio della realtà sociale, tra sfruttamento, ipocrisie di provincia e ingiustizie radicate. Ma il vero cuore della serie è lei, con i suoi pensieri a voce alta, i vestiti sbelluciccanti e la capacità di andare dritta al punto, senza fronzoli.

E poi c’è Matera, che non è mai solo uno sfondo, ma una presenza viva, antica, scolpita nella pietra. Come certe verità che Imma riesce a tirar fuori.

Non Uccidere – Ombre torinesi e verità familiari Tra le strade fredde e silenziose di Torino, si muove Valeria Ferro, ispettore dai modi asciutti e dallo sguardo profondo. Ogni caso che affronta in Non Uccidere è un nodo familiare: madri e figli, fratelli, segreti sepolti. Non ci sono mostri, solo esseri umani fragili che hanno smesso di vedere l’altro.

Valeria è dura, spesso spigolosa, ma sotto la corazza c’è una ferita mai rimarginata: sua madre è in carcere, condannata per l’omicidio del padre. Il passato, qui, non è mai passato davvero. La serie è cupa, intensa, a tratti dolorosa. Ma è anche uno dei ritratti più realistici e profondi mai visti della polizia italiana.

Il mio rituale serale. E poi, diciamolo: non è solo questione di storie appassionanti e città da sogno. È che queste serie sono diventate parte della mia routine quotidiana. Ho una TV da 85 pollici in camera da letto – sì, lo ammetto, un po’ esagerata, ma che gioia! – e un materasso top di gamma. Dopo cena, mi infilo sotto le coperte, accarezzo i miei due gatti, uno nero e uno grigio, che adorano farsi grattare sulla schiena, e accendo il mio piccolo cinema notturno. La luce blu del televisore, il silenzio della casa, il calore dei miei gatti. È il mio momento. La mia full immersion nel mistero, nei dialetti, negli sguardi, nelle città che conosco e in quelle che sogno. Un modo per chiudere la giornata con un po’ di bellezza e di tensione ben dosata.

venerdì 16 maggio 2025

Quel silenzio sul parabrezza. Riflessioni su prati stabili, insetti e una terra che si svuota

Mi diceva Pierpaolo, biologo e amico, il nostro prezioso consulente per l’equilibrio del laghetto in giardino, che in questi mesi sta lavorando a un progetto importante: il censimento dei prati stabili.

Lo fa con la passione e la competenza che lo contraddistinguono, e con una punta di urgenza. Perché quei prati — che molti guardano senza vedere — sono scrigni di biodiversità, e stanno scomparendo.

I prati stabili sono formazioni erbacee che non vengono arate né seminati da decenni, spesso da secoli. Si sono formati naturalmente, mantenuti da pratiche agricole tradizionali come lo sfalcio periodico o il pascolo leggero. Proprio perché “stabili”, cioè non disturbati da interventi intensivi, ospitano una varietà impressionante di specie: fiori, erbe spontanee, piccoli mammiferi, uccelli, ma soprattutto… insetti. E qui viene il punto.

Parlando con Pierpaolo, gli ho chiesto di raccontarmi qualcosa del suo lavoro. Mi ha risposto con una domanda, apparentemente banale: «Ti ricordi quando, tornando a casa in macchina, il parabrezza era sempre coperto di insetti schiacciati?»

Ci ho pensato un attimo. Poi ho fatto mente locale. Sì. Ricordo benissimo quella sensazione: il bisogno di pulire il vetro, la visibilità ridotta nei lunghi viaggi estivi, gli sciami che si infrangevano nella luce dei fari. Ma oggi? Oggi non succede più.

Proprio ieri, tornando a casa in auto, mi è venuto naturale guardare il parabrezza. Era perfettamente pulito. Nemmeno un moscerino. Nessuna vita appiccicata al vetro. Solo il riflesso del tramonto.

Mi è salita una tristezza profonda. Un vuoto difficile da spiegare. Perché la verità è che non si tratta solo di un dettaglio marginale, di una stranezza moderna, di un effetto collaterale della velocità. Si tratta di un segnale d’allarme ambientale.

Gli scienziati lo chiamano insect decline, il declino degli insetti. In alcune aree d’Europa si parla di una perdita fino al 75% della biomassa degli insetti volanti in appena trent’anni. Non c’è più il ronzio di una volta. Non c’è più quel fermento invisibile, brulicante, continuo. Non lo vediamo, ma ci manca.

E gli insetti non sono affatto creature marginali o fastidiose. Sono impollinatori, decompositori, regolatori naturali**. Senza di loro, **non esisterebbero i fiori, i frutti, gli uccelli, la vita nei suoi equilibri più intricati. Il suolo si impoverirebbe, le piante smetterebbero di riprodursi, intere catene alimentari si spezzerebbero.

E invece stiamo perdendo tutto questo. Silenziosamente. Progressivamente. Senza nemmeno accorgercene, ci stiamo abituando all’assenza.

E allora ho capito meglio l’urgenza del lavoro di Pierpaolo. Quei prati stabili, che resistono ai pesticidi, ai diserbanti, alle arature invasive e alla cementificazione, sono isole di resistenza biologica. Sono gli ultimi rifugi per api selvatiche, farfalle, coleotteri, grilli, cavallette, lucciole. Sono mondi in miniatura, che tengono insieme il nostro mondo più grande. Salvare un prato non significa solo difendere un paesaggio o proteggere una specie rara. Significa preservare la vita nella sua forma più minuta ma fondamentale.

Mi ha fatto riflettere, questa conversazione. E anche un po’ tremare. Perché se davvero la terra sta morendo — e in parte già sta accadendo — non lo farà con rumore, ma nel silenzio. Un silenzio che comincia dal parabrezza pulito di un’auto che torna a casa.

La voce che non invecchia mai. Buon compleanno, Sergio Endrigo

Ieri era l’anniversario della nascita di Sergio Endrigo. E io, che lo porto nel cuore da una vita, (assieme a Fabrizio de Andrè e Franco Bat...