Ma ormai la curiosità è accesa: adesso aspetto i pacchi con un misto di ansia e divertimento, pronta a scoprire se i capi saranno davvero di qualità infima — come giura qualcuno — oppure se non abbiano nulla da invidiare a ciò che troviamo nei negozi tradizionali, come sostengono altri da tempo.
Perchè l'ho fatto? Per curiosità ma anche perchè il made in Italy continua a costare come ieri, ma da tempo non coincide più con la filiera che i consumatori immaginano. Chi passeggia nelle vie del lusso delle grandi città italiane nota un cambiamento che fino a pochi anni fa sarebbe sembrato improbabile: nelle boutique entrano quasi esclusivamente clienti cinesi, giovani, sicuri, disinvolti.
Il segnale è evidente: il centro di gravità dei consumi si sta spostando, e non è più localizzato qui. Per molti acquirenti italiani, abituati a scegliere marchi storici per qualità e affidabilità, questo scenario risulta spiazzante. Un tempo un abito che costava cento era prodotto in Italia, nelle botteghe e nei distretti tessili che hanno reso celebre il nostro saper fare nel mondo. Con la stessa cifra oggi spesso si acquista un prodotto realizzato altrove, con filiere lunghe e stratificate.
La delocalizzazione ha garantito margini più ampi alle imprese, ma ha allontanato la produzione dal territorio, riducendo la tracciabilità reale e percepita. Intanto piattaforme come Temu e Shein, inizialmente liquidate come fast fashion a basso costo, stanno compiendo un salto qualitativo: introducono linee più curate, materiali migliori, collezioni ispirate ai brand occidentali, talvolta indistinguibili alla vista. Se le aziende italiane producono già negli stessi stabilimenti asiatici da cui queste piattaforme attingono, quanto tempo passerà prima che il consumatore decida di acquistare direttamente dalla fonte, eliminando il marchio intermedio?
In altri settori è accaduto: smartphone ed elettrodomestici cinesi hanno guadagnato credibilità, conquistando mercato a scapito dei brand storici. La moda potrebbe seguire lo stesso percorso, soprattutto se la qualità percepita convergerà. Non va trascurata un’ulteriore variabile: la possibile riqualificazione degli store cinesi presenti nelle nostre città. Oggi spesso percepiti come punti vendita low-cost, potrebbero trasformarsi rapidamente in competitor dei marchi tradizionali se inizieranno a proporre prodotti di fascia più alta, forti di logistica capillare e prezzi competitivi.
A conferma della fragilità del sistema è arrivato anche un segnale giudiziario: la Procura di Milano ha richiesto documentazione a tredici case di moda nell’ambito di un’inchiesta sul caporalato, con l’obiettivo di verificare la catena degli appalti e subappalti. Non si tratta di accuse, ma il messaggio è chiaro: quando la filiera si allunga, il controllo si riduce. Se le piattaforme orientali garantiranno qualità comparabile e trasparenza produttiva, mentre l’industria nazionale mostrerà zone d’ombra, sarà difficile chiedere fedeltà al consumatore.
Il mercato non ragiona con la nostalgia, ma con il portafoglio. È allora legittimo chiedersi se abbia senso un modello che delocalizza per ridurre i costi, ma finisce per alimentare i competitor che un giorno potrebbero sostituirlo. Perché un marchio non sopravvive grazie alla storia, ma grazie alla coerenza tra ciò che promette e ciò che vende. Se la qualità si sposta e il prezzo rimane, la fiducia si incrina. E una fiducia incrinata, nel mercato globale di oggi, è molto più difficile da recuperare che da perdere.

