domenica 14 dicembre 2025

La notte in cui ho sfidato Temu

Ho fatto un ordine su Temu da qualche centinaio di euro. Una follia notturna, lo ammetto. Non riuscivo a dormire, le “promozioni imperdibili” lampeggiavano come sirene su uno scoglio e… zac, ho esagerato. La mattina dopo, con la lucidità che solo l’alba sa riportare, mi sono resa conto della stupidaggine e ho annullato tre quarti degli acquisti.

Ma ormai la curiosità è accesa: adesso aspetto i pacchi con un misto di ansia e divertimento, pronta a scoprire se i capi saranno davvero di qualità infima — come giura qualcuno — oppure se non abbiano nulla da invidiare a ciò che troviamo nei negozi tradizionali, come sostengono altri da tempo.

Perchè l'ho fatto? Per curiosità ma anche perchè il made in Italy continua a costare come ieri, ma da tempo non coincide più con la filiera che i consumatori immaginano. Chi passeggia nelle vie del lusso delle grandi città italiane nota un cambiamento che fino a pochi anni fa sarebbe sembrato improbabile: nelle boutique entrano quasi esclusivamente clienti cinesi, giovani, sicuri, disinvolti.

Il segnale è evidente: il centro di gravità dei consumi si sta spostando, e non è più localizzato qui. Per molti acquirenti italiani, abituati a scegliere marchi storici per qualità e affidabilità, questo scenario risulta spiazzante. Un tempo un abito che costava cento era prodotto in Italia, nelle botteghe e nei distretti tessili che hanno reso celebre il nostro saper fare nel mondo. Con la stessa cifra oggi spesso si acquista un prodotto realizzato altrove, con filiere lunghe e stratificate.

La delocalizzazione ha garantito margini più ampi alle imprese, ma ha allontanato la produzione dal territorio, riducendo la tracciabilità reale e percepita. Intanto piattaforme come Temu e Shein, inizialmente liquidate come fast fashion a basso costo, stanno compiendo un salto qualitativo: introducono linee più curate, materiali migliori, collezioni ispirate ai brand occidentali, talvolta indistinguibili alla vista. Se le aziende italiane producono già negli stessi stabilimenti asiatici da cui queste piattaforme attingono, quanto tempo passerà prima che il consumatore decida di acquistare direttamente dalla fonte, eliminando il marchio intermedio?

In altri settori è accaduto: smartphone ed elettrodomestici cinesi hanno guadagnato credibilità, conquistando mercato a scapito dei brand storici. La moda potrebbe seguire lo stesso percorso, soprattutto se la qualità percepita convergerà. Non va trascurata un’ulteriore variabile: la possibile riqualificazione degli store cinesi presenti nelle nostre città. Oggi spesso percepiti come punti vendita low-cost, potrebbero trasformarsi rapidamente in competitor dei marchi tradizionali se inizieranno a proporre prodotti di fascia più alta, forti di logistica capillare e prezzi competitivi.

A conferma della fragilità del sistema è arrivato anche un segnale giudiziario: la Procura di Milano ha richiesto documentazione a tredici case di moda nell’ambito di un’inchiesta sul caporalato, con l’obiettivo di verificare la catena degli appalti e subappalti. Non si tratta di accuse, ma il messaggio è chiaro: quando la filiera si allunga, il controllo si riduce. Se le piattaforme orientali garantiranno qualità comparabile e trasparenza produttiva, mentre l’industria nazionale mostrerà zone d’ombra, sarà difficile chiedere fedeltà al consumatore.

Il mercato non ragiona con la nostalgia, ma con il portafoglio. È allora legittimo chiedersi se abbia senso un modello che delocalizza per ridurre i costi, ma finisce per alimentare i competitor che un giorno potrebbero sostituirlo. Perché un marchio non sopravvive grazie alla storia, ma grazie alla coerenza tra ciò che promette e ciò che vende. Se la qualità si sposta e il prezzo rimane, la fiducia si incrina. E una fiducia incrinata, nel mercato globale di oggi, è molto più difficile da recuperare che da perdere.

sabato 13 dicembre 2025

Scripta manent: una serata, tante voci, un unico grazie

Sono qui, distesa sul divano con il notebook sulle ginocchia e il fuoco del caminetto che mi fa compagnia come un vecchio amico. Ho nelle orecchie le cuffiette magiche che mi ha consigliato Roberto—quelle che ormai dimentico di togliere, finché una voce cinese non decide di rimproverarmi all’improvviso. Un piccolo spavento, un grande sorriso.

Spotify intanto mi manda una playlist di canzoni italiane degli anni Sessanta. E mentre le note scorrono, mi si stringe qualcosa dentro. È come se le dita della memoria mi accarezzassero la spalla. Rivedo me stessa ragazzina, ingenua e convinta che il mondo fosse tutto rosa. Poi ho scoperto che non proprio… ma le canzoni sì, quelle non mi hanno mai tradita.

Scrivo questo post perché ieri sera, all’agriturismo Brumat, nella serata organizzata per l'ennesima presentazione del mio "Donne tra due mondi" ho avuto una delle sorprese più dolci degli ultimi tempi: l'iniziativa si è trasformata in una serata che non avrei mai osato immaginare così bella. E ne scrivo qui, sul blog, perché desidero che tutto questo resti. Che rimanga nella memoria, nero su bianco, perché — diciamolo — scripta manent, verba volant. E a volte è bello trattenere un frammento di felicità, prima che voli via.

E voglio ringraziarvi. Pubblicamente. Con il cuore in mano.

Ero convinta che sarebbe stata una cena intima, che avrebbero partecipato solo gli amici che il libro l’avevano già preso. E invece no. La sala era piena, pienissima. E soprattutto era piena di vita.

C’erano le amiche che non avevo potuto vedere il giorno del mio compleanno, quel compleanno rimandato dal mio infortunio—questo gesso che ancora mi costringe a rallentare i passi e a rinviare lo spettacolo su Antonio Bonne. Sono arrivate con i loro regali, con i loro sorrisi, con quella presenza che vale più di mille parole.

C’era la mia vicina di casa, quella che stresso sempre per via del muro di recinzione da sistemare. C’era Elisabetta—non Simonetta!—la restauratrice più brava della regione (o forse d’Italia). C’erano Gabry e Paolo, complici perfetti di tartufi, pesce, musica e politica. E l'altro Paolo che con la sua chitarra ha dato anima ai monologhi di Lucia ed Edy, facendo rivivere Caterina, il vigile del mercato e Zita, la mia Zita raccoglitrice di erbe.

C’era Antonella, che avrebbe dovuto conversare con me durante la presentazione… e che invece ho travolto, come sempre, perché quando parto non mi fermo più. Ma il suo sorriso, credetemi, è stato più eloquente di qualsiasi domanda. E poi Sandra e Gianfranco, amici nuovi ma già cari. Gianfranco, che ha un dono raro: scrivere le emozioni con una delicatezza che arriva dove le parole di tutti gli altri non arrivano. E suo cognato Paolo, onnipresente nelle iniziative culturali della città—che io, sinceramente, non so come faccia a essere ovunque. Infine Patrizia. La perfezionista. La donna che ha girato il mondo per la cooperazione internazionale e che da mesi mi promette una chiacchierata che aspetto come si aspetta un tè con una vecchia amica. Lei, peraltro, ha un compito difficile, lo sa bene: aiutarmi a ritrovare la mia anima friulana. Missione possibile? Chissà. Ma se c’è qualcuno che può farcela, è lei.

E poi c’è lei: Stefania, la figlia di Valentina, che ieri sera ha gestito la sala con l’efficienza e l’eleganza di un vecchio maître navigato. E invece è solo una ragazzina — ma di quelle che fanno sentire orgogliosa una madre. Brillante a scuola, determinata, attenta ai dettagli. Le ho persino suggerito di studiare economia, perché un giorno possa valorizzare fino in fondo l’attività di famiglia. Una piccola imprenditrice in fieri, con i fiocchi.

E, naturalmente, non posso dimenticare Leonarda e Adriano, gli architetti ai quali mi affido sempre quando si tratta di scegliere una casa, un colore, un dettaglio che farà la differenza. Leonarda con il suo occhio sicuro e la sua calma preziosa; Adriano — il mio “cugino mancato” — con quella sensibilità estetica che ti fa venir voglia di rifare ogni stanza da capo. Averli lì, ieri sera, è stato come avere due fari accesi nella sala.

E se non ho citato tutti, non è certo perché vi abbia dimenticati: è che se iniziavo l’elenco completo diventava un testamento… e io ho tutta l’intenzione di vivere almeno fino a centovent’anni. Ci saranno tante, tantissime altre occasioni per nominarvi — e abbracciarvi.

Ecco perché scrivo. Per dire grazie. Per dire che, nonostante il gesso, nonostante la fatica, nonostante la vita che a volte inciampa… ci sono serate che ripagano tutto. Serate che ti ricordano che non sei sola. Che stai costruendo qualcosa che parla alle persone. Che le parole, quando sono condivise, diventano casa.

Ieri sera, quella casa eravate voi.

giovedì 11 dicembre 2025

Addio a Sophie Kinsella, la scrittrice che sapeva farci ridere anche nei giorni storti

C’è un dettaglio che oggi mi torna alla mente con una tenerezza particolare. La mia estetista di riferimento – con cui da anni mi scambio libri, consigli e novità letterarie e serie tv – ha una bambina che si chiama Sophie. Non ho mai avuto il coraggio di chiederle apertamente se quel nome fosse un omaggio a Sophie Kinsella, ma qualcosa mi dice di sì. Ricordo ancora il suo volto quando qualcuno, ingenuamente, pronunciava il nome “alla francese”, con l’accento sull’ultima i: si irrigidiva subito, puntualizzava, quasi a difendere un’identità precisa, un suono che aveva un peso affettivo tutto suo.

E forse è bello pensare che oggi esista una piccola Sophie che porta, senza saperlo, un frammento vivo dell’autrice che ha illuminato le nostre giornate più buie. Kinsella mi ha regalato sorrisi quando ne avevo davvero bisogno e – ammettiamolo – ha anche fornito una sorta di alibi letterario a quelle nostre fasi di acquisto compulsivo che, prima o poi, toccano tutte. La differenza è che, con lei, riuscivamo perfino a riderci su.

Perchè oggi il mondo della letteratura ha perso una voce luminosa e gentile: Sophie Kinsella, autrice britannica amata da milioni di lettrici e lettori in tutto il mondo, si è spenta all’età di 55 anni dopo una lunga battaglia contro un tumore al cervello. La notizia è stata condivisa dalla sua famiglia con commozione, ricordando come negli ultimi giorni della sua vita fosse circondata dall’affetto dei suoi cari, dalla musica e dal calore delle piccole gioie quotidiane.

Nata Madeleine Sophie Wickham a Londra nel 1969, Sophie ha iniziato la sua carriera come giornalista finanziaria prima di trasformare in romanzi la sua ironia, la sua capacità di osservare i tic della vita moderna e – soprattutto – il suo senso dell’umorismo.

Forse la conosciamo più di tutti come la creatrice di Becky Bloomwood, protagonista della celebre serie I Love Shopping, una saga che ha fatto ridere, e – diciamolo – anche annusare un po’ di follia nelle nostre stesse ossessioni da consumatrici. Ma il suo talento non si limitava a Becky: i suoi romanzi come Ti ricordi di me?, La regina della casa e sai tenere un segreto? erano piccoli, deliziosi sprazzi di allegria e umanità.

Per me — e per tanti altri lettori — bastava aprire uno dei suoi libri per sentirsi con la spalle un po’ più leggere, il sorriso un po’ più facile. C’era qualcosa nei suoi personaggi, nei loro pasticci, nelle loro imperfezioni, che ci faceva sentire a casa, proprio quando la giornata sembrava non voler girare dalla nostra parte.

E adesso che Sophie non c’è più, i suoi libri restano lì, pronti a regalarci ancora quella genuina felicità leggera che sapeva infondere con naturalezza: una piccola rivoluzione contro la tristezza, pagina dopo pagina.

Addio Sophie — grazie per quei sorrisi infilati tra le righe.

La notte in cui ho sfidato Temu

Ho fatto un ordine su Temu da qualche centinaio di euro. Una follia notturna, lo ammetto. Non riuscivo a dormire, le “promozioni imperdibili...