sabato 29 dicembre 2018

Orari, negozi e territorio


Il giorno di Santo Stefano mi sono svegliata infreddolita. Il termosifone principale di ghisa dell’appartamento sembrava non funzionare, tenuto conto che era gelido al tatto. Dopo aver controllato tutti gli altri ed aver accertato il loro corretto funzionamento mi sono resa conto che non era necessario chiamare la ditta incaricata della manutenzione dell’impianto; fatto questo alquanto sgradito vista la giornata festiva. Perché, con ogni probabilità, il motivo era da ricondurre alla circostanza che le batterie della valvola termostatica del termosifone si erano esaurite e, di conseguenza, era stato interrotta la circolazione di acqua calda. Nella consapevolezza di un tanto: niente paura, mi sono detta. Dopo colazione esco, mi vesto bene e vado nel supermercato più vicino ad acquistarne delle nuove. Tutto ciò dopo aver richiesto al gruppo whatsapp condominiale indicazioni circa le caratteristiche delle pile in questione. Peraltro, avrei acquistato anche l’acqua Sant’Anna per la caffettiera elettrica; tenuto conto che quella del rubinetto, nella mia città, è ricca di calcio ed il sapore del caffè viene fortemente alterato. Sta di fatto che, come la saggezza popolare vuole, tra il dire ed il fare ci sta di mezzo il mare, perché diversi supermercati della zona erano inesorabilmente chiusi. Gira e rigira quello della Despar era fortunatamente aperto; ed anzi il piazzale destinato a posteggio al completo. Con la fila delle macchine in attesa  che uno stallo si renda libero. Ed è allora, in quel momento, che tra me e me mi sono chiesta: chissà se la decisione di chiudere i negozi alla domenica, in un ritorno al passato, verrà o meno adottata; adesso che i comportamenti di acquisto dei consumatori si sono adeguati all’offerta? Insomma, se gli orari dei negozi a me, personalmente, vanno bene così, non posso invece non essere critica nei confronti dei centri commerciali responsabili di aver depauperato, o meglio ancora essere i responsabili della desertificazione dei centri storici di città e paesi, di aver massicciamente contribuito alla cementificazione del territorio. Peraltro, dei centri commerciali avremmo ben potuto farne a meno, in quanto del tutto inutili, tenuto conto che la rete dei negozi cittadini ha sempre soddisfatto la domanda. Ormai la situazione reale è davanti agli occhi di tutti: l’azione dell’uomo sul territorio è stata devastante, la copertura artificiale ha minato l'integrità ambientale e, di conseguenza, la sicurezza. Frane, smottamenti ed alluvioni sono tutti responsabilità dell’uomo. Progettare e costruire sono stati visti sempre come un connubio inscindibile di progresso, a danno di un connubio, forse più costoso, ma certamente meno devastante: progettare e ristrutturare. Insomma, è ben diversa la gettata di cemento che distrugge il territorio in maniera permanente, rispetto all’azione di recupero del patrimonio edilizio esistente. Contributi, agevolazioni e finanziamenti dovrebbero essere concessi soltanto a coloro i quali condividono la scelta etica del non consumo di suolo. Ciò in quanto la situazione è drammatica. I dati diffusi dall’Ispra nel rapporto sul consumo di suolo, di alcuni mesi fa, informano che il cemento è arrivato a sottrarre alla natura 2 metri quadrati al secondo, pari a 15 ettari al giorno, fino a raggiungere i 52 km quadrati di superficie totale. Valori che, in termini economici, rappresentano una perdita superiore ai 3 miliardi di euro l’anno. Credo dovrebbero essere queste le preoccupazioni di un Ministro dell’economia più che dibattere sull’opportunità o meno di un ritorno alle origini per quanto riguarda i turni di chiusura domenicale dei negozi. Nel senso che battersi per aperture e chiusure, a qualsiasi settore ci si riferisca, è comunque sempre una battaglia di retroguardia che accontenterebbe pochi e scontenterebbe molti.

domenica 16 dicembre 2018

Dubbi natalizi e concetto di Nazione


La cosa che più mi emoziona, adesso che mi sto ancor di più avvicinando alla soglia dei 70 anni, è pensare all’incredibile fortuna che ho avuto di aver svolto, per 40 anni, un lavoro che non soltanto mi piaceva ma mi appassionava. Fortuna che fa il paio con la mia convinzione che ogni anno che passa è un anno di maggiori conoscenze ed esperienze. Non mi rattristo, quindi, allo scorrere del tempo, bensì gioisco per tutto ciò che il tempo libero mi consente di fare. Ed è molto, per non dire tutta la giornata intera, soprattutto nei mesi in cui il giardino non ha bisogno di alcuna cura.
Perché, se ho un bel ricordo della mia vita lavorativa, ancor di più sono straordinari questi anni di disimpegno, avendo la possibilità di dedicare, finalmente, tutto il mio tempo e non soltanto quello rimasto libero dal lavoro, alla lettura, al cinema, ai viaggi e alla cucina e perché no, anche alla scrittura. Interessi che, alla fin fine, sono interdipendenti come tra poco svelerò a proposito del viaggio a Vienna che ho fatto nei giorni scorsi, per festeggiare il compleanno.
Quest’anno, in cui ricorre il centenario della fine della grande guerra, ho iniziato a guardare a Vienna con occhi diversi. Cosi come mi sembrava peraltro necessario dover fare, tenuto conto che il territorio in cui sono nata io ed anche i miei genitori, hanno fatto parte per 500 anni dell’Impero asburgico. In sostanza, qualche motivo pur ci sarà se, personalmente, mi sono sempre sentita attratta non dal mito di Sissi, ma da quel senso di ordine, serietà ed impegno che fu Maria Teresa d’Austria la quale, già nel 1700, introdusse per i suoi sudditi l’obbligo della istruzione scolastica e fondò quel sistema catastale, da tutti invidiato, e che l’Italia non è riuscita ancora ad estendere alle altre regioni: il sistema tavolare.
Potrei parlare per ore di questo mio tardivo amore per l’Austria, da sempre tuttavia seppur inconsciamente manifestato attraverso preferenze culinarie, scelte letterarie e cinematografiche: il mio piatto preferito (seppur soltanto d'inverno) sono i crauti con le salsicce; a quattrodini anni avevo già letto tutte le opere di Joseph Roth; ed uno dei registi più amati è Herzog. E, sotto un certo punto di vista, mi addolora il fatto che al mio cognome sia stata strappata quella “g” finale che inequivocabilmente manifestava l’origine della mia famiglia.
Io credo si debba ripartire dall’idea di nazione, così come l’ha elaborata Federico Chabod, nel senso che Il senso di nazionalità è l’affermazione della singolarità di ogni paese, realtà unica e irripetibile, con un proprio territorio, una propria storia e una propria cultura. Insomma, romanticismo che esalta la genialità e l’unicità del singolo individuo, contro illuminismo che tende a generalizzare, offrendo una soluzione unica a tutti gli stati. E se è stato, alla fin fine, Giuseppe Mazzini, ad attivarsi perché l’idea di nazione come concetto astratto si concretizzi come unità politica e non solo come entità linguistica, geografica e culturale, io qui, a nove giorni da Natale, manifesto il mio sofferto senso di appartenenza, perché i vincoli culturali sono più stabili e duraturi di quelli istituzionali.

La casa che ti sceglie

Ogni anno, a novembre, acquisto Gardenia perché, allegata alla rivista, c’è un’agenda. Nonostante mi consideri abbastanza informatizzata, e ...