"Seguo con grande interesse questo blog, che mi sono di stimolo e riflessione. Per questo ho colto l'invito a riguardare il film spartiacque di Rossellini e anche gli altri due ambientati a Ostia. A proposito della sincronicità, teoria Junghiana, che mi trovo a riconoscere spesso fra le anse del cammino esistenziale, mi sono soffermata sul diverso sguardo con cui ho approcciato " Roma città aperta". Nella mia prima visione, quella da studentessa universitaria, ho concentrato l'attenzione sugli aspetti prettamente artistici della pellicola: la regia, l'interpretazione degli attori, lo snodarsi degli eventi, culminanti nella scena dell'uccisione di Pina, il personaggio interpretato da Anna Magnani, una vicenda tanto più straziante e disumana perché tratta da un episodio realmente accaduto e che Sergio Amidei (soggettista del film) aveva letto su un opuscolo clandestino. Si trattava di una donna, Teresa Gullace, una combattente per la resistenza che, in cinta, venne uccisa dai tedeschi mentre cercava di salvare il marito. La morte avvenne a Viale Giulio Cesare dove c'è una lapide che la ricorda (dall'articolo di Laura Finicchiaro sul sito archivioannamagnani.it ).
Molti anni dopo, ad una età diversa, in un momento storico che gli echi di una guerra ce li fa sentire sulla pelle, ho rivisto il film soffermandomi su un dialogo in particolare che mi ha molto colpita. Si tratta del momento in cui il Maggiore Bergman, funzionario della Gestapo che cerca di estorcere all' ingegnere Giorgio Manfredi, catturato insieme a Don Pietro, informazioni e nomi degli altri appartenenti alla resistenza, riflette sulla tenacia del detenuto. Manfredi resterà incrollabile fino alla morte per le torture subite, il Maggiore irritato per l'ostinazione del prigioniero, lascia la stanza dove don Pietro è costretto, impotente, ad assistere alla barbarie. Mostruosità si somma a mostruosità e solo la pietà umana, come faro nelle tenebre, spacca il guscio della ferocia attraverso le parole di un ufficiale, in un momento di verità etilica, in risposta all'affermazione di Bergman che sentenzia: "se quest'uomo resiste allora è come un tedesco". L'assioma più profondo è sconcertante, come un balenio improvviso disintegra il castello di carte di un "noi e un voi" concludendo con la sola profonda verità: che l'umanità è una e indivisibile, mossa da stessi bisogni e desideri e che, alla fine di tutto questo orrore, resterà solo l'odio frammisto alle ceneri della distruzione. Bergman cerca di far tacere l'altro ufficiale ma la diga ormai è infranta, riconducendo tutto alla verità di quella atopia, che leggo nel post e che non è più solo "mancanza di luogo " di appartenenza geografica, sociale di quei soggetti marginalizzati, centrifugati dai centri urbani verso periferie di mancanza profonda e di orrore. Il Katà Métron cui fa riferimento Roberto Grimaldi, quella capacità tanto profondamente umana di autoregolazione e controllo degli istinti più mostruosi, che pure sono terrificantemente possibili, è l'unica porta di accesso a quella angusta e tortuosa via verso l'umano, l'unica via degna di essere percorsa.
Sulle altre pellicole mi sono soffermata ( conto di vedere l'intera trilogia di Claudio Caligari, di cui " Non essere cattivo" rappresenta il capitolo finale, il regista è infatti scomparso nel Maggio del 2015 subito dopo il montaggio del film) proprio con questo sguardo: quando la natura si fa dis-umana si aprono le porte all'orrore. Solo se si mantiene accesa la fiaccola della coscienza, quella che alcuni definiscono la "scintilla divina" che abita ciascuno di noi, possiamo sperare di non venire travolti dell'oscurità. Questa fiaccola, come in una staffetta, se la stanno passando tante donne coraggiose, la giornalista di Repubblica Federica Angeli, come le tantissime ragazze iraniane che stanno lottando e perdendo il bene più prezioso, la vita, per uno che loro reputano ancora più importante e imprescindibile: il poter vivere nella propria terra in pace e libertà al grido di " donna, vita, libertà ". La stessa staffetta che guida l'impegno di tanti ragazzi e ragazze di " helping to leave" che aiutano i civili a evacuare da aree di conflitto militare, una migrazione silenziosa, che si sta svolgendo in parallelo al conflitto che, da ormai quasi un anno, ha portato morte e distruzione nei territori dell'Ucraina. " La paura non è un buon motivo per fermarsi" questo il loro motto, questo, come un mantra, avrà accompagnato le scelte della Angeli perché la paura non è mai venuta meno, ha solo lasciato il posto ad una istanza maggiore, insopprimibile, urgente che alberga nel cuore, se solo la si riesce a far risuscitare anche in quei destini che bellezza e amore non hanno mai incontrato e devono costruirsene una rielaborazione astratta. Scegliere dunque nonostante tutto il male conosciuto, sofferto, vissuto, di " Non essere cattivo" di non essere prigioniero del proprio vissuto ma libero nel proprio futuro. Ecco che la riflessione finale, sul cinema italiano, da cui per diversi anni mi ero allontanata, è che stia rivivendo un nuovo rinascimento, come se nella scelta neorealista alberghi la cifra del suo messaggio più forte, più compiuto, forse perché più autenticamente sentito.