martedì 17 gennaio 2023

Far parte della staffetta

Ricevo e volentieri pubblico, le riflessioni di Giovanna Campagna a proposito del mio ultimo post sul cinema italiano.

"Seguo con grande interesse questo blog, che mi sono di stimolo e riflessione. Per questo ho colto l'invito a riguardare il film spartiacque di Rossellini e anche gli altri due ambientati a Ostia. A proposito della sincronicità, teoria Junghiana, che mi trovo a riconoscere spesso fra le anse del cammino esistenziale, mi sono soffermata sul diverso sguardo con cui ho approcciato " Roma città aperta". Nella mia prima visione, quella da studentessa universitaria, ho concentrato l'attenzione sugli aspetti prettamente artistici della pellicola: la regia, l'interpretazione degli attori, lo snodarsi degli eventi, culminanti nella scena dell'uccisione di Pina, il personaggio interpretato da Anna Magnani, una vicenda tanto più straziante e disumana perché tratta da un episodio realmente accaduto e che Sergio Amidei (soggettista del film) aveva letto su un opuscolo clandestino. Si trattava di una donna, Teresa Gullace, una combattente per la resistenza che, in cinta, venne uccisa dai tedeschi mentre cercava di salvare il marito. La morte avvenne a Viale Giulio Cesare dove c'è una lapide che la ricorda (dall'articolo di Laura Finicchiaro sul sito archivioannamagnani.it ).

Molti anni dopo, ad una età diversa, in un momento storico che gli echi di una guerra ce li fa sentire sulla pelle, ho rivisto il film soffermandomi su un dialogo in particolare che mi ha molto colpita. Si tratta del momento in cui il Maggiore Bergman, funzionario della Gestapo che cerca di estorcere all' ingegnere Giorgio Manfredi, catturato insieme a Don Pietro, informazioni e nomi degli altri appartenenti alla resistenza, riflette sulla tenacia del detenuto. Manfredi resterà incrollabile fino alla morte per le torture subite, il Maggiore irritato per l'ostinazione del prigioniero, lascia la stanza dove don Pietro è costretto, impotente, ad assistere alla barbarie. Mostruosità si somma a mostruosità e solo la pietà umana, come faro nelle tenebre, spacca il guscio della ferocia attraverso le parole di un ufficiale, in un momento di verità etilica, in risposta all'affermazione di Bergman che sentenzia: "se quest'uomo resiste allora è come un tedesco". L'assioma più profondo è sconcertante, come un balenio improvviso disintegra il castello di carte di un "noi e un voi" concludendo con la sola profonda verità: che l'umanità è una e indivisibile, mossa da stessi bisogni e desideri e che, alla fine di tutto questo orrore, resterà solo l'odio frammisto alle ceneri della distruzione. Bergman cerca di far tacere l'altro ufficiale ma la diga ormai è infranta, riconducendo tutto alla verità di quella atopia, che leggo nel post e che non è più solo "mancanza di luogo " di appartenenza geografica, sociale di quei soggetti marginalizzati, centrifugati dai centri urbani verso periferie di mancanza profonda e di orrore. Il Katà Métron cui fa riferimento Roberto Grimaldi, quella capacità tanto profondamente umana di autoregolazione e controllo degli istinti più mostruosi, che pure sono terrificantemente possibili, è l'unica porta di accesso a quella angusta e tortuosa via verso l'umano, l'unica via degna di essere percorsa.

Sulle altre pellicole mi sono soffermata ( conto di vedere l'intera trilogia di Claudio Caligari, di cui " Non essere cattivo" rappresenta il capitolo finale, il regista è infatti scomparso nel Maggio del 2015 subito dopo il montaggio del film) proprio con questo sguardo: quando la natura si fa dis-umana si aprono le porte all'orrore. Solo se si mantiene accesa la fiaccola della coscienza, quella che alcuni definiscono la "scintilla divina" che abita ciascuno di noi, possiamo sperare di non venire travolti dell'oscurità. Questa fiaccola, come in una staffetta, se la stanno passando tante donne coraggiose, la giornalista di Repubblica Federica Angeli, come le tantissime ragazze iraniane che stanno lottando e perdendo il bene più prezioso, la vita, per uno che loro reputano ancora più importante e imprescindibile: il poter vivere nella propria terra in pace e libertà al grido di " donna, vita, libertà ". La stessa staffetta che guida l'impegno di tanti ragazzi e ragazze di " helping to leave" che aiutano i civili a evacuare da aree di conflitto militare, una migrazione silenziosa, che si sta svolgendo in parallelo al conflitto che, da ormai quasi un anno, ha portato morte e distruzione nei territori dell'Ucraina. " La paura non è un buon motivo per fermarsi" questo il loro motto, questo, come un mantra, avrà accompagnato le scelte della Angeli perché la paura non è mai venuta meno, ha solo lasciato il posto ad una istanza maggiore, insopprimibile, urgente che alberga nel cuore, se solo la si riesce a far risuscitare anche in quei destini che bellezza e amore non hanno mai incontrato e devono costruirsene una rielaborazione astratta. Scegliere dunque nonostante tutto il male conosciuto, sofferto, vissuto, di " Non essere cattivo" di non essere prigioniero del proprio vissuto ma libero nel proprio futuro. Ecco che la riflessione finale, sul cinema italiano, da cui per diversi anni mi ero allontanata, è che stia rivivendo un nuovo rinascimento, come se nella scelta neorealista alberghi la cifra del suo messaggio più forte, più compiuto, forse perché più autenticamente sentito.

lunedì 9 gennaio 2023

Roma e cinema: un connubio complesso

C’è chi sostiene che le coincidenze non esistono. Per dirla in maniera dotta, alla maniera di Jung, esiste nel flusso di eventi causali una linea di eventi acausali e cioè che non ha nessun collegamento apparente in natura con la legge di causa ed effetto, mossi da una qualche energia volitiva legata agli esseri umani, che li mette in grado di essere partecipi di eventi che non avrebbero dovuto accadere ma che di fatto in un modo o nell’altro accadono. La chiamò la legge della Sincronicità. Una teoria, in pratica, in cui il caso non esiste ma esiste un flusso di energia che dall’uomo torna all’uomo in risposta ad un suo bisogno profondo. In parole povere, il pensiero prevarica completamente tempo e spazio, mettendo in moto eventi acausali in risposta ad un desiderio inconscio.

In un’interessante analisi pubblicata alcune settimane fa (e la cui lettura integrale si consiglia vivamente), Roberto Grimaldi afferma che ““Luogo” è qualcosa che evoca i rituali della memoria e delle emozioni, è la risonanza emotiva che s’innesca quando l’ambiente è regolato dalla misura e dal “katà métron”, (con questa espressione il pensiero filosofico greco delle origini si riferiva all’atteggiamento di chi sa avere cura di sé; di chi sa governare se stesso avendo consapevolezza di sé, delle proprie possibilità e dei propri limiti.) Ma se si è al margine, si è abitati dal malessere, è l’atopia dell’esclusione: questo è la periferia. Ma allora perché più della metà della popolazione mondiale vive in città – e il fenomeno è in crescita esponenziale – se la destinazione più probabile e meno attraente è la fascia suburbana?

Quando si parla di periferia urbana, e dei relativi problemi connessi, il primo pensiero non può che andare a Roma, la più estesa realtà cittadina italiana, con i suoi 1.290 chilometri quadrati e i suoi 2,9 milioni di abitanti. Basti pensare che il 23 per cento della popolazione del comune di Roma vive oggi al di fuori del Grande Raccordo Anulare e in queste aree l’incremento degli abitanti negli ultimi dieci anni è stato del 26 per cento, a fronte del fatto che dentro il Gra (Grande raccordo anulare) la popolazione invece diminuisce. Pier Paolo Pasolini, racconta Isabella Amicuzi, nonostante non fosse nato a Roma, riuscì a descriverla in maniera minuziosa nelle sue opere. Le borgate, la loro lingua e la loro vitalità sono da subito fonte d’ispirazione per la sua produzione letteraria. La periferia romana diventa per il poeta la vera protagonista di un viaggio di ricerca e scoperta che lo accompagnerà fino al giorno della sua tragica scomparsa. È proprio nel quartiere di Monteverde che comincia a scrivere Ragazzi di vita. Romanzo pubblicato nel 1955 e che farà diventare Pasolini lo scrittore centrale del panorama culturale italiano.

Per quanto riguarda il cinema, arte che personalmente amo moltissimo, ho scoperto recentemente l’importanza del film Roma città aperta che ho visto una vita fa e che, me lo riprometto da un po’ di tempo, devo proprio riguardare. Otto Preminger, che è stato regista, produttore cinematografico e attore austriaco naturalizzato statunitense, una volta disse che «la storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta». Girato in segreto durante l’occupazione nazista in Italia, in Roma città aperta Roberto Rossellini racconta realisticamente la resistenza clandestina e l’Italia diventa così la patria del nuovo cinema. Basta storie inventate, rassicuranti e a lieto fine. Tutto il mondo si ispira, quindi, alle pellicole dei registi nostrani. Insomma, il neorealismo diventa un genere che tutti i più grandi volevano imitare.

Ed ecco che ritorno alle coincidenze. In queste giornate uggiose d’inizio inverno, quando l’umidità esterna certamente non invoglia ad uscire, a meno che non si sia costretti a farlo per qualche incombenza necessaria, mi è capitato di vedere, in successione, due film, ambedue ambientati ad Ostia, ovvero nella periferia romana, ed ambedue di denuncia sociale. Il primo è A mano disarmata (2019, Regia: Claudio Bonivento) e racconta la storia “vera” di una giornalista di Repubblica, Federica Angeli, la quale durante un lavoro d'inchiesta sul litorale romano di Ostia, si ritrova faccia a faccia con un pericoloso boss mafioso che la minaccia di morte se non rinuncerà a pubblicare l'articolo. Pochi giorni dopo l'accaduto, Federica sarà inoltre testimone oculare di una sparatoria tra clan in lotta per il dominio della zona. Nonostante sia spaventata dalle ripercussioni sulla sua famiglia e nonostante il tentativo di tutti di farla desistere, lei denuncerà i fatti. Da quel momento, costretta a vivere sotto scorta, la sua vita e quella dei suoi cari cambierà per sempre. Il secondo Non essere cattivo(2015, regia di Claudio Caligari) è ambientato sempre ad Ostia e racconta la storia di due amici. Un excursus, racconta Paola Casella su Mymovies, nei luoghi oscuri non solo dell'hinterland romano, ma dell'animo umano e della società contemporanea, raccontato attraverso due figure di confine, l'una encomiabile per la sua volontà di tirarsi fuori dalle sabbie mobili della propria condizione, l'altra patetica per l'incapacità strutturale di farlo. Perché “In certi luoghi e certe circostanze non essere cattivo, per citare il titolo, non è una scelta, perché per sopravvivere alla violenza e alla prevaricazione che ti circonda devi tirare fuori la tua natura peggiore, e possibilmente un "ferro".

Due storie, due visioni della vita in questi due film, che consiglio a tutti di guardare (ambedue sono disponibili su Raiplay). Due film italiani che rappresentano le due facce della medaglia di ciò che siamo e di ciò che vogliamo o possiamo essere. Il senso civico della giornalista che vede la propria vita rivoluzionata è coerente con ciò che anche professionalmente ha scelto di essere. Dall’altro lato il degrado di una società che non dà, se non raramente, possibilità di riscatto. Roma, quindi, sempre Roma. Ma non è solo la Caput mundi meta sognata da ogni turista. Non è solo la città rappresentata, in sintesi, da via Veneto e la dolce vita. E' una città complessa che, fortunatamente, il cinema non ha smesso di raccontare e che, per quanto mi riguarda, non ho smesso di seguire.

La casa che ti sceglie

Ogni anno, a novembre, acquisto Gardenia perché, allegata alla rivista, c’è un’agenda. Nonostante mi consideri abbastanza informatizzata, e ...